“Ah che sarà, che sarà
quel che non ha governo, né mai ce l’avrà
quel che non ha vergogna, né mai ce l’avrà
quel che non ha giudizio?”
(Francisco Buarque De Hollanda/Ivano Fossati)
Poesia deriva da poiéin, che significava fare, produrre. Oggi fa sorridere la sua etimologia, visto che la poesia è considerata improduttiva, inutile. Ma cos’è la poesia? Leggendo nei vocabolari vengono sempre date definizioni autoreferenti o tautologiche. Nelle enciclopedie vengono menzionati tutti i generi. Ne La poesia e lo spirito, uno dei blog letterari italiani più seguiti, vengono chiamati di volta in volta dei poeti per dare una definizione di poesia e ognuno attribuisce un significato diverso alla poesia. La poesia è iniziata con il primo essere umano, che ha usato una metafora o un’altra figura retorica. La poesia morirà con l’ultima parola dell’ultimo uomo. C’è poesia infatti in ogni uomo, in ogni linguaggio. Ogni tanto, parlando, qualsiasi persona utilizza il linguaggio traslato. Come ha dichiarato la poetessa e scrittrice Gemma Gaetani pronunciamo nei discorsi di ogni giorno degli endecasillabi e neanche ce ne accorgiamo; quindi un poeta che riesce a ingabbiare le sue parole nelle cosiddette forme chiuse non è un extraterrestre dalla mente straordinaria perché tutti noi creiamo endecasillabi senza volerlo, senza saperlo. La capacità di creare e sentire poesia è connaturata in ogni essere umano, anche se ci sono differenze individuali e culturali. Ma veniamo alla definizione di poesia. Roland Barthes ne “Il grado zero della scrittura” riprendeva la doppia equazione di Jourdain e concludeva che poesia=prosa+a+b+c e che prosa=poesia-a-b-c. Ricordo che a stava per metrica, b per la rima, c per il rituale delle figure. Per Jakobson la funzione poetica dipendeva dalla struttura del messaggio. Insomma fino a buona parte del Novecento in poesia contava soprattutto il “come si dice” e il contenuto doveva essere accompagnato da una buona forma, che aveva delle regole certe. Oggi sono cambiati i gusti, i criteri, i canoni. Alfonso Berardinelli in “Poesia non possia” sostiene che la poesia in parte cambia storicamente, ma che riesce anche a mantenere un’identità di principio. Con la diffusione del verso libero oggi la metrica non è più importante per alcuni. Perfino gli autori molto colti della Neoavanguardia e poi della poesia di ricerca usano una metrica cosiddetta informale. Qualche critico guarda ancora se i versi sono settenari, endecasillabi e se sono versi canonici, cioè se hanno i giusti accenti tonici, storcendo il naso eventualmente per le troppe dialefi (perché un buon poeta dovrebbe utilizzare solo sinalefi). Molti giovani poeti se ne strabuggerano della metrica. Alcuni critici più intransigenti li chiamano acapisti, perché vanno a capo forse senza sapere neanche loro il motivo. Oggi sono cambiati i tempi e la poesia è diventata sempre più performativa, come dimostra l’afflusso di pubblico nei poetry slam, e quindi qualcuno sostiene che vale molto un altro aspetto, ovvero la recitazione. Personalmente so che una buona poesia letta male può sembrare pessima e una pessima poesia recitata con enfasi e arte da un attore può anche sembrare più che dignitosa. Quindi la recitazione può fare effettivamente la differenza. Ma altri elementi non trascurabili della poesia performativa possono anche rivelarsi l’aspetto fisico del poeta o della poetessa, il contesto, perfino lo stato mentale degli ascoltatori (e quindi anche il loro possibile stato alterato di coscienza per il tasso etilico elevato. Dopo due o tre birre o qualche bicchiere di vino i versi mediocri sembrano ottimi, come insegnava il compianto Sergio Claudio Perroni). È alquanto complesso e opinabile dare una definizione di poesia oggi. Non c’è niente di esatto, né di certo. Forse addirittura finiamo per cacciarci in una terra di nessuno. Però proviamoci, restando possibilisti e aperti al dubbio. Un tempo le persone tenevano le loro poesie nel cassetto con discrezione, mentre oggi tantissimi le pubblicano sui social. Non sappiamo quali saranno le conseguenze di ciò. Non sappiamo cosa accadrà in futuro. È vero che nel Novecento, come hanno scritto Berardinelli e Enzensberger in “Che noia la poesia”, molti hanno già cercato invano di dire cos’è la poesia e come si analizza un testo poetico. Lungi da me stabilire delle leggi, perché nessuno riuscirebbe a imporle e se ci riuscisse nel giro di pochissimo tempo verrebbero subito trasgredite. C’è chi potrebbe obiettare che cercare di definire la poesia è cercare di rendere oggettivo qualcosa di soggettivo per antonomasia. Però bisogna tentare di descrivere, anche se in modo vago, cos’è la poesia, perché molti oggi pensano che la poesia voglia dire solo espressione di stati d’animo o un semplice accostamento inusuale di parole. La poesia a mio modesto avviso per essere tale oggi potrebbe (non dovrebbe, perché questo verbo implicherebbe una sicumera che non ho) avere almeno uno di questi requisiti minimi:
– la ricchezza lessicale o almeno una certa proprietà di linguaggio.
– capacità descrittiva per gli autori che inseguono la mimesi (ovvero che con le loro opere vogliano “imitare” la natura e più in generale il mondo).
– una certa capacità evocativa, allusiva, pur sapendo che un oltre un certo margine di indeterminatezza il testo diventa oscuro o peggio ancora incomprensibile.
– creazione di nuove metafore.
– creazione di belle immagini o delle immagini non quotidiane.
– gioco con il linguaggio, come ad esempio Palazzeschi.
– conoscenza del linguaggio poetico preesistente, sapendolo rivitalizzare, facendo nuovi innesti verbali.
– dono della sintesi.
– importanza alle piccole cose.
– espressione di ciò che molti non riescono a esprimere.
– espressione dell’inconscio individuale e/o collettivo.
– denuncia delle ingiustizie e delle disuguaglianze .
– dimostrazione di empatia nei confronti degli altri.
– una musicalità della parola, data da allitterazioni, assonanze, consonanze e pure anche da delle rime. Per quanto riguarda queste ultime se fate rime troppo ricercate vi possono dire malignamente che avete usato il rimario, mentre se fate rime più comuni vi possono dire che erano troppo facili, banali e scontate. A ogni modo un poeta valido deve avere un suo ritmo.
– padronanza dell’autore del senso e del significato, sapendo giocare talvolta sulla distinzione tra senso e significato, ad esempio con l’ironia o con altri stratagemmi. Il poeta deve saper giocare tra denotazione e connotazione, con l’ambiguità semantica, che però non deve mai essere eccessiva.
– coerenza interna in una silloge o raccolta, da cui si nota lo stile inconfondibile del poeta. Oggi comunque esiste anche il pluristilismo. Come scriveva Sanguineti: “Il mio stile è non avere stile”. Ma anche il pluristilismo deve essere coerente stilisticamente.
– l’originalità, l’innovazione. Qualità difficili da trovare, perché alcuni sono epigoni e manieristi, non sapendo esprimere a pieno la loro personalità e non riuscendo a trovare una loro strada, quello che Borges chiamava “un nuovo filone di cose”. Insomma è doveroso non imitare e sapersi distaccare dai maestri.
– conoscenza della tradizione, interiorizzata, filtrata, rielaborata. Di conseguenza l’autore deve dimostrare una intellettualità non comune.
– una buona conoscenza della natura umana e/o delle leggi del mondo.
– una buona capacità di porsi domande esistenziali, metafisiche, sociali, civili, politiche.
– capacità di passare dal particolare all’universale.
– capacità di emozionare.
– capacità di creare simboli e/o miti.
– capacità di veicolare un messaggio.
– capacità di stupire, di sorprendere, di sbalordire. In letteratura si chiama straniamento, ovvero la bravura nel saper rovesciare il punto di vista del lettore, di far vedere un aspetto del reale da una prospettiva nuova.
– capacità di saper creare uno scarto dal linguaggio comune.
– capacità di saper “aprire un mondo”, come scriveva Heidegger, cioè saper rappresentare in modo totalmente nuovo la realtà. Ma questo vale solo per capolavori come la “Divina Commedia” o “I fiori del male”. Oppure un’opera è memorabile anche quando cerca di “ricostruire il mondo”, come sosteneva Walter Pedullà.
Qualcuno potrà dire che andrebbe aggiunto o tolto qualcosa da questa lista oppure che sono stato troppo ridondante e ripetitivo. Io ci ho pensato e ripensato. Il quadro mi sembra di primo acchito esauriente, però va messo in conto che c’è sempre qualcosa di indefinibile di inspiegabile, di insondabile nella poesia. Per quanto suggestiva una definizione di poesia è troppo problematica e incerta. Non vi venga in mente che fare poesia sia facile. I poeti bisogna anche capirli; ci vuole fatica (non sto parlando dei poeti della domenica) anche per produrre buona poesia, dato che su 100 poesie, se va bene, soltanto 5-10 sono degne di nota in genere. Insomma il poeta deve creare e limare; deve fare e disfare, come Penelope. Noi possiamo etichettare, classificare, descrivere, ma domani potrebbe spuntare una nuova generazione di poeti che stravolge completamente tutto e perciò dovremmo rimettere totalmente in discussione la nostra definizione, ricominciando da capo, cercando di capire in cosa abbiamo mancato e sbagliato, perché la poesia più autentica non è omologabile, si differenzia sempre da quella precedente. Inoltre un tempo c’erano gli ismi e un poeta veniva classificato soprattutto in base a quelli, mentre oggi è molto più complicato. Merini scriveva: “Non cercate di prendere i poeti perché vi scapperanno tra le dita”. La poesia a ogni modo, anche se non è salvifica, può essere terapeutica sia per chi la scrive che per chi la legge. Bisogna comunque essere sempre dubbiosi. Quando non apprezziamo una poesia vale sempre la pena chiedersi: è davvero poesia questa roba oppure sono io che non la so apprezzare, che sono rimasto indietro con i tempi? La poesia è un doppio test proiettivo di personalità, un test sia per il poeta che per il lettore. Per la poesia contemporanea a ogni modo non esiste alcuna regola aurea. Probabilmente l’unica regola è che la poesia si muove tra appena percepito e l’invisibile, tra il conscio e l’inconscio, tra il non detto e l’indicibile, tra l’irrisolto e l’insolubile, tra l’inespresso e l’inesprimibile, tra la vita e la morte, tra aldiqua e aldilà, tra il nulla e Dio. In una sua celebre poesia Zanzotto scriveva: “Hölderlin: “siamo un segno senza significato”:/ ma dove le due serie entrano in contatto?”. Ivano Fossati anni fa cantava “Che sarà?” e una risposta possibile a quella domanda inevasa potrebbe proprio essere “la poesia”, dato che in definitiva anche l’amore, quello vero, è sempre poesia, anche se nel Novecento in Italia c’è stato uno iato molto spesso tra poesia e amore.