Il solipsismo è la prospettiva psicologica secondo la quale l’unica realtà esistente è quella del singolo individuo mentre la realtà esterna sarebbe solo una semplice riproduzione della sua mente. Il solipsismo può essere inquadrato secondo diverse sfumature. La più radicale è quella del cosiddetto “solipsismo metafisico”, in base al quale l’individuo è l’unica realtà esistente mentre il mondo esterno e gli altri sono solo sue rappresentazioni e non hanno esistenza indipendente. Poi vi è il “solipsismo epistemologico”, secondo il quale solo i contenuti mentali della mente solipsista possono essere conosciuti mentre l’esistenza del resto non è ritenuta conoscenza falsa ma viene messa in discussione. Infine, secondo il “solipsismo metodologico”, l’io individuale e i suoi sentimenti sono il punto di partenza di ogni costruzione filosofica. Ci sono stati filosofi che hanno elaborato posizioni riconducibili al solipsismo, ma prima di iniziare a tracciare un parallelo tra i loro pensieri, vorrei provare a investigare il problema in modo soggettivo.
Ritengo personalmente che il solipsismo sia privo di fondamento, dal momento che l’esistenza della realtà è giustificata ovviamente come datità empirica, alla quale perveniamo tramite i cinque sensi. Ma a questo punto sorgono due domande di natura differente. Si può affermare solo la propria esistenza e negare quella della realtà? La risposta è no, dal momento che sono i nostri cinque sensi a segnalarci la presenza di qualcosa esistente intorno a noi che si declina in termini di mondo umano, vegetale, animale e inanimato. Esaurito questo punto, dobbiamo però anche porci una seconda domanda : l’esistenza del mio io è tanto autentica quanto quella degli altri o della realtà esterna in generale? Questa seconda domanda apre una voragine nel terreno filosofico e mi permette di giungere a conclusioni interessanti. La risposta a questa domanda è no. Andiamo ad analizzare il perché.
Ci sono indizi precisi che segnalano una maggiore autenticità dell’esistenza dell’io rispetto a quella della realtà esterna, incluse le altre persone. Il primo è la capacità da parte del soggetto di poter affermare con certezza la sua esistenza indipendentemente dai cinque sensi. In altre parole, il soggetto percepisce il fatto di esistere nel mondo semplicemente con la sua mente. Questa non è un’analisi puramente filosofica ma è anche suffragata da elementi empirici. Esiste una situazione in particolare, come quella dello stato di coma, in cui pur avendo tutti i sensi azzerati, il solo fatto di avere delle esperienze “near death” ci segnalano il fatto che esistiamo. Quanto all’esistenza degli altri o della realtà, non riusciamo a percepire la loro esistenza senza i cinque sensi. Inoltre, l’individuo conosce perfettamente cosa accade all’interno del suo corpo, come ad esempio la frequenza del proprio battito cardiaco o la temperatura del proprio corpo, oltre a sensazioni di benessere o di malessere fisico e mentale. Ma questo l’individuo non lo può fare con gli altri, dal momento che egli non potrebbe mai trovarsi con il proprio spirito all’interno del corpo di un’altra persona. Proprio il fatto di non poter entrare con lo spirito nel corpo degli altri segna una linea di demarcazione significativa e decisiva tra l’autenticità dell’esistenza dell’io e quella degli altri.
Ricollegandomi al fatto che la certezza dell’esistenza degli altri è subordinata ai cinque sensi, in realtà il mondo del cinema e dei cartoni animati ha superato questo livello attraverso la fantasia. Per citare gli esempi a me noti, nella serie televisiva “Highlander”, gli immortali percepiscono la presenza di altri immortali, indipendentemente dai cinque sensi. A proposito di battito cardiaco, nel film “Highlander, l’ultimo immortale”, Connor MacLeod percepisce la presenza di un cervo riuscendo a sentire il suo battito cardiaco. Nel manga e cartone animato giapponese “Dragon Ball”, i protagonisti riescono a percepire non solo la presenza ma anche la forza spirituale di vari combattenti, anche a grande distanza. Concludo la mia disquisizione personale affermando ancora una volta che come individui se potessimo entrare nel corpo degli altri scoprendone i vari fenomeni e se riuscissimo a percepire la presenza degli altri, ma anche del mondo vegetale, animale e inanimato senza i cinque sensi, allora per noi come soggetti l’esistenza di ciò che va al di noi come singoli individui sarebbe più autentica.
Anche se vari sono i filosofi riconducibili in qualche modo al pensiero solipsista, io qui mi limito a trattare Cartesio, Husserl e Berkeley, con qualche accenno alle filosofie orientali. Attraverso la formula “cogito ergo sum”, Cartesio (1596- 1650) intende affermare l’assoluta certezza dell’esistenza dell’individuo, che si basa sulla capacità individuale di pensare e dubitare. Il dubbio metodico cartesiano si basa sul fatto che ogni contenuto della conoscenza deve essere sottoposto a dubbio e ciò risulta funzionale al raggiungimento delle verità ultime. Dal momento che solo l’io esiste con certezza, la realtà esterna potrebbe anche essere il frutto dell’azione di un genio maligno. Questo è il dubbio iperbolico cartesiano che è un’estremizzazione di quello metodico. Da sottolineare è il fatto che per Cartesio solo la parte pensante dell’io (“res cogitans”) è data come esistente per certo, ma non il corpo fisico, perché quest’ultimo essendo materiale è parte della “res extensa”. Su queste basi, il corpo esiste solo in quanto idea prodotta nella mente dell’individuo ma non ha una sua esistenza indipendente.
Come Cartesio, anche Edmund Husserl (1859 – 1938) può essere accostato al solipsismo metodologico, con la differenza che se per il primo si può avanzare l’ipotesi che il mondo sia il prodotto di un genio maligno, il secondo non ne dubita dell’esistenza. Attuando l’epochè, la sospensione di giudizio sull’esistenza della realtà, Husserl non ne nega l’esistenza né dubita su di essa, ma semplicemente attua un’operazione costruttiva che gli è funzionale per giungere alle essenze della realtà stessa. In particolare, i fenomeni naturali sono analizzati nel modo in cui si danno alla coscienza, cioè nel modo in cui sono percepiti e ricordati. In altre parole, si può dubitare dell’esistenza di un oggetto ma non si può negare che io lo si possa vedere. Dal momento che non si può mettere tra parentesi (o mettere in discussione) la coscienza pura dell’io, questa è definita da Husserl “residuo fenomenologico”, ciò che resta dopo aver messo tra parentesi l’esistenza della realtà.
Secondo George Berkeley (1685 – 1753), la realtà esterna non presenta un’esistenza indipendente dal soggetto pensante. In altre parole, le entità percepite non esistono al di là della nostra percezione. Tuttavia, la posizione di Berkeley non è totalmente assimilata a quella del solipsismo, in quanto il filosofo irlandese non riteneva che una volta scomparso il soggetto pensante, le cose pensate scomparirebbero automaticamente. Ciò che sottrae Berkeley dal solipsismo totale è la tesi in base alla quale le cose percepite esistono realmente ma solo nella mente divina. Tutta la realtà non esiste se non in Dio : potremmo assimilare questa posizione a una sorta di “solipsismo divino”.
Quanto alle filosofie orientali, dottrine assimilabili al solipsismo si possono riscontrare nei testi religiosi indiani Brihadaranyaka Upanishad della filosofia hindu, che risalgono al primo millennio a. C. Gli Upanishad sostenevano che la mente fosse l’unico Dio e che tutte le azioni dell’universo non fossero altro che il risultato della mente che assume forme infinite. Secondo la corrente della filosofia hindu “Advaita Vedanta” , tutto ciò che esiste è nient’altro che il sé. Tuttavia, anche se tale posizione potrebbe rinviare al solipsismo occidentale, in realtà essa va collocata nel contesto teologico del “transumano” che ci impedisce di affibbiare alla corrente Advaita Vedanta l’etichetta del solipsismo. Analogamente, nel Buddismo la posizione secondo la quale la realtà è pura illusione è stata erroneamente accostata al solipsismo. In realtà, secondo la filosofia buddista, la mente e i fenomeni esterni sono parimenti transeunti e derivano l’uno dall’altro. L’una non può esistere senza gli altri : questa forma di interdipendenza è nota come “pratityasamutpada”.