In questo post, propongo il tema dell'ostilità della natura nei confronti dell'essere umano nella poesia, focalizzando l'attenzione su tre autori in particolare: Montale, Lucrezio e Leopardi.
Nella sua famosissima poesia “Meriggiare pallido e assorto” la poesia di Montale, che ruota intorno al tema dell'infelicità della condizione umana e inospitabilità della natura a lui circostante, si chiude in un modo roboante e perentorio: la metafora della vita come recinto circondato da cocci aguzzi di bottiglia non può che suscitare sconcerto ma al tempo stesso stupore per l'incisività del messaggio che il poeta intende esprimere. Questa metafora allude all'impossibilità da parte dell'essere umano di attribuire un senso alla vita umana che è come un lungo travaglio privo di senso e finalità. L'idea dell'esistenza umana come “prigione” è in realtà anticipata all'inizio del componimento e la si può riscontrare nell'immagine dell'orto rovente. Da questo componimento poetico così come in “Mediterraneo” emergono dettagli riguardo l'insidiosità del paesaggio naturale con la quale l'essere umano è costretto a convivere. Il mare è insidioso, la terra arida, più ospitale per gli insetti che per altre forme di vita; il sole che batte incessantemente senza pietà è il simbolo di qualcosa che impedisce di scoprire la verità. Le crepe del suolo, i calvi picchi sono il simbolo dell'insensatezza e grigiore dell'esistenza. Vi è anche la metafora delle formiche che vanno avanti e indietro senza una meta e rappresentano la routine priva di senso dell'uomo. In questa poesia, il familiare paesaggio della costiera ligure viene inquadrato nel suo lato oscuro e drammatico.
Questa visione della natura presentata da Montale la si può riscontrare in Lucrezio nella sua opera “De rerum natura”. Tradizionalmente la letteratura scientifica attribuisce a Lucrezio una filosofia ottimista, ispirata all'epicureismo e anche suffragata dall'Inno a Venere che apre la sua opera fondamentale. Detto ciò, c'è un passaggio nel libro V del “De rerum Natura” (versi 195 – 234) in cui predomina un pessimismo cosmico e un giudizio negativo sulla natura circostante l'uomo. Da un lato Lucrezio si propone di spiegare in modo scientifico i fenomeni naturali, destituendo di ogni valore qualsiasi credenza divina, dimostrando che la natura non è stata predisposta per gli esseri umani. Ciononostante, si tratta di un'amara verità a mio avviso che rafforza la tesi dell'impotenza degli esseri umani di fronte alle calamità naturali e alle malattie. Questa è una conseguenza logica, anche se lo stesso autore latino sarebbe pronto a smentire un'ideologia assimilabile al pessimismo cosmico leopardiano. Da notare che Lucrezio non confina l'analisi della natura al suo luogo di nascita come nel caso di Montale ma prende in esame l'intero pianeta Terra svelando impietosamente la verità nuda e cruda: due terzi della Terra o sono troppo caldi o troppo freddi, ciò che resta di coltivabile viene a fatica lavorato dagli uomini. Gran parte della superficie terrestre è occupata da monti, selve, rupi e paludi. Poi a un certo punto il poeta sembra disvelare il suo pessimismo in una serie di domande retoriche, che vanno al di là della semplice analisi scientifica: “E poi, la razza orrenda delle fiere, nemica del genere umano, perché la natura in terra e in mare la alimenta e la accresce? Perché le stagioni apportano malattie? Perché la morte prematura s'aggira qua e là?”
In Leopardi, il meccanicismo della natura acquisisce più chiaramente e costantemente una connotazione negativa. Predomina infatti nelle sue opere l'indifferenza della natura al destino degli esseri umani come nella poesia “A Silvia”, laddove il poeta commemora Teresa Fattorini, figlia del cocchiere a casa Leopardi, condannata dal meccanicismo della malattia naturale ad una morte prematura. Nella “Ginestra”, la rappresentazione dell'aspetto desolante e sconfortante della natura nel suo rapporto con l'uomo si connette all'attribuzione della natura in quanto matrigna e che “ per gli uomini è madre per il parto e matrigna per come ci tratta.” Nel polemizzare sulle favole della religione e nel rigetto di qualsiasi visione finalistica e antropocentrica, Leopardi sembra richiamare Lucrezio : “Ti reputi o stirpe umana padrona e fine dell'universo e ti è piaciuto fantasticare su come i creatori del mondo siano scesi su questo dimentico granello di sabbia”. Ciò è pienamente confermato con toni più drammatici e desolanti nella seguente affermazione dello stesso componimento: “la natura non ha per il genere umano più stima o cura che per le formiche”. Lo stesso tema dell'indifferenza della natura lo si può individuare nel “Dialogo tra la Natura e un Islandese”. Quest'ultimo, viaggiando in una zona inesplorata dell'Africa, si imbatte in un'immensa creatura vivente, appunto la Natura. Dal dialogo emerge un crescendo di argomentazioni che portano alla conclusione che la Natura non sembra essere assolutamente consapevole delle calamità e delle malattie che produce e che sono il risultato della sua meccanicistica incessante opera di creazione e distruzione. Ciò chiaramente richiama la “Divina Indifferenza” montaliana.
Infine, una breve considerazione su come Montale, Lucrezio e Leopardi reagiscono all'ostilità della natura. In Montale, la ragione assume un ruolo centrale di ricerca della verità, dettato dall'impellente necessità di sciogliere il mistero della vita. Essenzialmente, il pensiero montaliano si riduce a una filosofia negativa, in cui è possibile affermare ciò che non si è e ciò che non si vuole. Anche se non si giunge a conclusioni certe e verità assolute, lo scopo della poesia resta comunque imperniato a un approccio razionale rispetto ai fatti della vita quotidiana, senza eludere gli interrogativi massimi dell'esistenza.
In Lucrezio, emerge chiaramente oltre che una finalità scientifica della sua scrittura anche un intento liberatorio e catartico che prende forme nella liberazione dell'umanità dalla paura degli dei e dalle credenze religiose e le superstizioni. In particolare, quest'ultime vengono aspramente condannate nel passaggio relativo al sacrificio di Ifigenia (versi 80 – 101 del “De rerum natura”), sacrificata in modo empio e scellerato per scopi religiosi.
In Leopardi, anche se prevale la considerazione della totale infelicità dell'essere umano ed è assente l'elemento della speranza che affiora in Montale, una via di fuga da questa infelicità è rappresentata dallo studio dei classici greci e latini anche se questa va contestualizzata nella sua personale esperienza di vita e non può assurgere a modello per l'uomo. Tuttavia tale modello può essere individuato nel finale della “Ginestra” laddove Leopardi suggerisce l'idea della solidarietà e della cooperazione umana al fine di contrastare l'azione devastante della natura e l'infelicità umana che ne deriva.