Le Procuratie Vecchie di Venezia ospitano fino all’11 settembre 2022 la mostra Persistence dedicata alla grande artista americana Louise Nevelson.
Un’occasione da non perdere anche per visitare il meraviglioso palazzo veneziano. Dopo un lungo restauro compiuto dallo studio David Chipperfield Architects Milan, è fruibile per la prima volta dopo 500 lunghi anni! La mostra è un evento collaterale alla Biennale di Venezia di quest’anno e celebra i sessant’anni della partecipazione della Nevelson alla Biennale del 1962.
Louise Nevelson
Louise Nevelson è lo pseudonimo di Leah Berliawsky (Kiev, 23 settembre 1899 – New York, 17 aprile 1988). Nata nei pressi di Kiev, nel 1905 la famiglia emigrò negli Stati Uniti, nel Maine, dove il padre cominciò a lavorare nel campo del legname. Successivamente si dedicò alla costruzione di case in legno, lavoro che gli permise di raggiungere una certa agiatezza economica. Louise frequentò scuole private, lezioni di musica e canto. Nei primi anni Venti, la giovane donna si sposa, si trasferisce con il marito a New York, nasce il figlio Mike e comincia a frequentare le gallerie d’arte. È l’inizio di un periodo complesso in cui le è sempre più difficile accettare il ruolo di moglie e madre.
Frequenta corsi di teatro e si avvicina all’Avanguardia Cubista. Comincia a viaggiare in Europa, a Parigi entra in contatto con l’arte africana e approfondisce lo studio del Cubismo. Nel 1933 rientra a New York e apre il proprio studio al Greenwich Village, esponendo i suoi primi lavori realizzati con materiali poveri ed ispirati all’arte africana. Lavora anche come assistente di Diego Rivera.
La consacrazione artistica
Negli anni Quaranta divorzia dal marito per dedicarsi totalmente all’arte. Nel 1941 le viene dedicata la prima mostra personale alla Nierendorf Gallery di New York. Nel 1951 viene eletta nella National Association of Women Artists. In quegli anni colleziona oggetti, materiali di scarto e comincia ad assemblare le pareti di sculture-architetture concepite come un unico lavoro che però potranno anche essere smembrate e vendute separatamente. Il mondo dell’arte è travolto da queste grandi opere monocrome, dipinte principalmente di nero antracite, create con elementi di scarto. Viene invitata alla Biennale di Venezia del 1962. Nel padiglione americano presenta tre installazioni dipinte di nero, bianco e oro. È la consacrazione. Comincia ad esporre in tutto il mondo. Nel 1967 il Whitney Museum di New York le dedica una prima vasta retrospettiva con oltre cento lavori dagli anni Trenta ai più recenti. In Italia sarà lo Studio Marconi di Milano a collaborare con lei e a dedicarle vari eventi.
Si spegne a New York il 17 aprile 1988.
Persistence
La mostra di Venezia è curata da Julia Bryan-Wilson, docente di Arte Moderna e Contemporanea all’Università di Berkeley, in California e tra i massimi esperti del lavoro di Louise Nevelson. Cuore dell’esposizione sono le monumentali sculture-architetture di grandi dimensioni in legno dipinto, prevalentemente di vernice nera. Opere che hanno reso la Nevelson uno degli interpreti della scena artistica americana e mondiale tra gli anni Cinquanta ed Ottanta. La mostra non si sviluppa in ordine cronologico, nelle sale sono riunite sessanta opere che spaziano dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta, in un percorso continuo che mostra lo svolgersi del processo artistico, il lavoro incessante di una donna battagliera che ha saputo ritagliarsi uno spazio privilegiato in un mondo dominato dall’ideologia e dal potere maschile.
Il percorso espositivo
La prima sala ci accoglie con opere monumentali a parete degli anni Sessanta e Settanta, immerse nel colore nero antracite a lei caro. Si prosegue con griglie-contenitori che accolgono al loro interno oggetti più piccoli evocando la brulicante vita delle città americane.
Nelle sale successive si ha la possibilità di ammirare i suoi Collages che non aveva mai mostrato quando era in vita. Opere di piccole dimensioni rispetto alla grandiosità delle sue creazioni più iconiche ma che la rappresentano in modo più intimo.
Louise Nevelson si è dedicata con passione durante la sua lunga vita ai collages, considerandoli quasi una forma di disegno, di rappresentazione dell’idea. Rimandano ai collages cubisti di Picasso e agli assemblaggi dadaisti di Kurt Schwitters.
Lavori di sperimentazione dove elementi di riuso come il cartone, la stoffa, la carta vetrata, l’alluminio, i ritagli di giornale, vengono uniti per assumere una nuova vita e dare dignità all’opera dell’artista. Sono piccole poesie che ci permettono di spaziare nel gioco creativo senza dimenticare la vita quotidiana fatta di piccole cose ed oggetti all’apparenza banali.
Artillery
Una sala molto interessante è quella intitolata Artillery dove le opere esposte sono assemblaggi che utilizzano scatole per munizioni di uso maschile durante le operazioni belliche e a cui l’artista dà una nuova vita decontestualizzandoli e trasformandoli in contenitori astratti o meglio, nell’artiglieria utile alla scultrice per fini più nobili. È il lato femminista e battagliero della Nevelson che con la sua sensibilità muliebre ad artistica ha sempre cercato di far affiorare il lato positivo, industrioso e propositivo dell’altra metà del cielo.
Moon Spikes and Sky Cathedral
In questa sala sono esposte alcune opere che fanno parte dei due cicli più rappresentativi della Nevelson: Moon Spykes degli anni Cinquanta,
di dimensioni più intime, e Sky Cathedral degli anni Settanta. Serie che viene spesso considerata tra le sue opere più significative.
Bianco, nero e oro
Nell’ultima sala possiamo ammirare anche installazioni completamente dipinte di bianco e di oro come Dawn’s presence-Three del 1975 e The Golden Pearl del 1962. A proposito dei colori utilizzati, Louise Nevelson diceva:”Quando mi sono innamorata del nero, conteneva tutti i colori. Non era una negazione del colore, al contrario era un’accettazione. Perché il nero comprende tutti i colori. È il colore più aristocratico di tutti. L’unico colore aristocratico. Per me è il massimo”.
“Il bianco è un colore più gioioso….Credo che i bianchi abbiano contenuto il nero, che esprime maggiore libertà e non uno stato d’animo. Il bianco si muove un po’ più nello spazio cosmico”.
”L’oro è un metallo che riflette il grande sole. Di conseguenza penso sia giunto naturalmente dopo il nero e il bianco. In realtà era per me un ritmo agli elementi naturali. Ombra, luce, la luna, il sole”.
(Parole tratte da Louise Nevelson di Bruno Corà, Skira, 2013)
La bambina che voleva essere scultore
Sin da piccola Louise Nevelson sapeva che sarebbe diventata artista. Lo disse all’età di nove anni ad una bibliotecaria che le aveva chiesto cosa volesse fare da grande. Lei rispose che voleva essere artista, anzi, scultore!
La critica d’arte italiana Carla Lonzi definì la Nevelson all’apparire alla Biennale del 1962 “singolarmente suggestiva”. La Lonzi in un saggio degli anni Sessanta scriveva che nell’opera dell’artista “si avvertiva una presenza nuova, proliferante, di un’ambiguità tutta femminile”. In quel saggio si sottolineava l’opera mastodontica di Distruzione e Trasfigurazione in cui si poteva percepire la dinamica cruciale ed irrequieta del processo dello scultore. Trasfigurazione non in senso cristiano ma gioco di fantasia ed esorcismo. Un’operazione in cui vengono liberate le energie creative di semplici oggetti di uso quotidiano, spesso negletti ed abbandonati. Oggetti che liberati dalle catene di un destino ineludibile rinascono con nuovo slancio e significato.
Forse è anche per queste interpretazioni che Louise Nevelson è annoverata tra le prime donne femministe che hanno voluto ribaltare schemi e preconcetti accettati come ineluttabili.
Donna in un mondo di uomini che ha rifiutato anche se con dolore il ruolo di moglie e madre per dedicarsi ad un altro tipo di creazione che non fosse quella riproduttiva per spiccare il volo verso orrizzonti lontani. Sempre ben salda alla terra, agli elementi della natura, come il legno dei suoi amati boschi dell’infanzia. Legni abbandonati, come spesso possono essere le donne, ma che hanno sempre una linfa ed un’energia sopita e vitale che le sprona verso nuove sfide.
Come non essere affascinati da questa pioniera dell’arte e del femminismo? Attraverso le sue opere ripercorriamo anche la storia del Novecento, dell’umanità e dell’immenso potere femminile di cui dovremmo ricordarci sempre ogni volta che ci sentiamo violate.
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