Elena Croce ed Elisabetta Furino, per la regia di Alessio Pizzech, portano in scena al teatro dei Conciatori di Roma, il lavoro culmine di Alberto Savinio: “ Emma B., vedova Giocasta “, un testo attraverso il quale l'autore ironizza e dissacra noi stessi e le regole conformistiche che ci siamo dati, particolarmente in ordine al buio che il dolore presente genera in noi stessi.
E' la storia di una donna, una madre, che rivedendo il filmato della sua vita riflette, in forma a volte drammatica ed a volte velata di un istrionismo soffocante, cerca di rivalutarsi agli occhi di se stessa attraverso l'inatteso arrivo di una lettera che gli preannuncia il ritorno del figlio che la abbandonò quindici anni prima.
Elena Croce, con voce suadente ed affascinate, con fattezze assolutamente adatte allo svolgersi di quello che può definirsi un vero e proprio dramma interiore, spiega al pubblico ed a se stessa come la delusione ed il dolore che provò quando il figlio si allontanò da casa l'abbiano provata e resa quasi folle, rendendola altresì schiava di un dolore infinito che la lettera inattesa le rinfocola dentro, sia pure rendendola speranzosa di una sua possibile riqualificazione.
La Croce racconta, da grande diva del teatro che non ha purtroppo raggiunto la notorietà che certamente le competerebbe, quasi delirando, la storia di una vita trascorsa in mezzo ad innumerevoli difficoltà causatele principalmente dal marito che non l'ha mai considerata ed anche da questo suo figlio che, dopo essere stato da lei salvato da una ispezione di polizia, l'abbandonò volendosi, forse, affrancare dalla protezione materna.
L'arrivo della lettera è forse, per Emma B., vedova Giocasta, l'occasione per rinascere, per rivalutarsi, per poter sperare che gli insuccessi che il figlio ha maturato nel corso della vita trascorsa lontano da lei possano rappresentare elementi in grado di riqualificarsi sia come madre che come donna; meravigliosamente grandioso è l'incontro di Emma con gli abiti del figlio racchiusi gelosamente in un armadio che domina la scena, un sacrario dal quale ella fa uscire i ricordi per rivivere, ormai da folle, alcuni periodi importanti della vita del figlio ed anche della sua.
Come pure altamente drammatica è la scena in cui, per apparire migliore alla vista del figlio ( che chissà mai se arriverà veramente ) trae da un cassetto alcuni elementi per il trucco e li utilizza in maniera quasi assurdamente spropositata, colta da un raptus di follia lucida, e non, che la colpisce.
La sua fine, di madre e di donna sarà quella di essere simbolicamente, rinchiusa, definitivamente, in quell' armadio – sacrario che gelosamente custodisce i suoi ricordi.
Il fallimento di una madre che per riscattarsi dall'onta di essere stata abbandonata dal marito e dal figlio è qui espresso, in maniera che meglio è impossibile ipotizzare, dalla maturità espressiva in scena di una grande Elena Croce e dalla simbologia della presenza di Elisabetta Furini che, soltanto con la sua presenza, qualifica ed identifica la intera vita di una donna ormai psicologicamente tarata che, da madre, volle egoisticamente identificare nella conduzione del figlio, una rivalsa all'offesa perpetratale dal marito ed il ritorno a casa del figlio è senz'altro la conferma ideale del riconoscimento che l'educazione che ella avrebbe voluto dare al figlio, sarebbe stata quella giusta a soddisfare la sua opera di madre.
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