Villa Torlonia sulla Nomentana, prezioso intreccio di neoclassicismo e Liberty, è una delle più belle ville di Roma. Il parco, oltre a fontane, obelischi e falsi ruderi romani, nasconde un laghetto dalla forma irregolare, creato per ricordare il gigantesco lago del Fucino, prosciugato con imponenti fatiche e spese proprio dai Torlonia.
La famiglia prende origine a Roma alla metà del Settecento dal francese Marin Tourlonias, cameriere del cardinale Troiano Acquaviva d’Aragona, che ricordò con tanto affetto il fedele servitore nel testamento, da permettere all’ormai italianizzato Marino Torlonia di avviare prima una bottega di tessuti a Piazza Di Spagna ed in seguito un banco di prestito.
Con il figlio Giovanni lo spirito d’impresa si sviluppa ulteriormente, il Banco Marino Torlonia diventa il principale creditore della nobiltà romana, sfruttando anche la situazione creata dall’occupazione francese.
Con la Restaurazione la famiglia entra al servizio della Chiesa, diventando la banca di Pio VII.
Ingenti donazioni alle chiese romane e numerose opere pie aiutarono ad ottenere il favore del Pontefice e fecero arrivare i titoli nobiliari, che nel corso del tempo divennero sempre più importanti fino a raggiungere il rango di Principi.
L’ascesa rapidissima portò la stella dei Torlonia ad inserirsi tra le più importanti ed influenti famiglie dello Stato Pontificio, non solo per meriti borghesi, ma anche per interessati legami famigliari, si imparentarono infatti con le più nobili e antiche famiglie romane come i Colonna e gli Orsini.
Giovanni continuò a consolidare la sua ascesa, comprando opere d’arte antiche e moderne, ricchi palazzi e ville suburbane lussuose. Anche i due figli maschi, Marino e Alessandro, furono dei notevoli imprenditori, ma fu il più giovane ad imporsi sulla scena. Alessandro, Principe di Civitella Cesi, Duca di Cesi e Marchese di Romavecchia fu il vero grande artefice delle fortune della famiglia.
Il capace rampollo accrebbe la grandiosa villa sulla Nomentana, aggiungendo anno dopo anno nuovi stupefacenti elementi; aumentò gli orizzonti del Banco, acquisendo il monopolio del sale e del tabacco a Roma e a Napoli. La sua ricchezza aumentò in modo così rapido e stupefacente che gli permise di fiutare l’affare migliore della sua carriera: il prosciugamento del Fucino.
Il lago del Fucino era il terzo lago per estensione in Italia e misurava circa 145 kmq. Aveva come immissario il fiume Giovenco e molti torrenti, ma non aveva un emissario e le sue acque finivano in un inghiottitoio naturale e, attraverso un fiume sotterraneo, nel fiume Liri. Questo causava una pericolosa variabilità del livello delle acque, a cui già i Romani avevano provveduto tramite un enorme condotto, all’epoca però ormai ostruito.
Questa grande opera era vagheggiata anche da Ferdinando II di Borbone e così nel 1853 venne costituita col placet reale e dietro finanziamenti anglo-francesi una Compagnia Anonima Regia Napolitana, la quale avrebbe dovuto dare avvio al prosciugamento del Fucino e alla successiva bonifica delle terre emerse.
I capitali non bastarono, gli ostacoli burocratici divennero insormontabili e così il rampantissimo Alessandro rilevò le quote dei soci, assumendo un rischio enorme. Celebre divenne così la frase del principe “o io prosciugo il Fucino o il Fucino prosciuga me”.
Vinse il Torlonia, grazie a 4.000 operai e a valenti progettisti, gli svizzeri Franz Mayor de Montricher, Enrico Bermont e il francese Alexandre Brisse. Il 1 Ottobre 1878 del lago del Fucino restava solo un ricordo.
I pescatori dei paesi che si affacciavano sul lago erano però ora rimasti senza lavoro, con un inevitabile incremento delle famiglie povere. Occorreva creare in comunità contadine, ma molti abitanti di tali luoghi non volevano coltivare il fondo del lago rubato alle acque, forse anche memori inconsapevoli delle credenze religiose degli antichi Marsi per i quali il Fucino era il “dio Fucino”. Saranno così importate braccia dalla Romagna e dal Veneto.
Iniziava così l’epopea dei Torlonia in Abruzzo, dove raggiunsero una considerazione tale tra gli abitanti che Ignazio Silone descrverà così nel romanzo Fontamara: «In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire ch’è finito.»